mercoledì 13 luglio 2016

Ultime Parole



Il campanello suonò tre volte e Anna, seccata, si infilò velocemente le scarpe e corse ad aprire la porta. Aveva dato al suo fidanzato le chiavi di casa due mesi prima, ma lui puntualmente le dimenticava chissà dove, divertendosi poi a suonare il campanello finché lei non gli apriva la porta. Forse dovrei cucirgliele addosso, pensò Anna spalancando la porta e lanciandogli un'occhiataccia. Quel giorno era piuttosto infastidita ma non sapeva bene il perché. Aveva a che fare con Franco, ma al momento non ricordava quale fosse il motivo.
«Sei bellissima» furono le prime parole che le disse, non appena la vide. «Anche quando fai il broncio».
«E tu sei il solito smemorato. Che fine hanno fatto questa volta le chiavi?»
«Mmmh... aspetta» e controllando le tasche tirò fuori il portachiavi che lei gli aveva regalato per il loro ultimo anniversario.
«Queste dici?» Anna lo fulminò con un'occhiata ma lui si limitò a sorriderle.
«Oggi pensavo di rapirti e di portarti da qualche parte, che ne dici?» propose lui, prima che lei avesse il tempo di dire qualcosa.
«Non posso, devo lavorare».
 «A dir la verità... no. Ho provveduto a telefonare al tuo capo dicendogli che ti prendevi una giornata di ferie» le rivelò, sfoderando quel suo sorriso furbesco che l'aveva fatta innamorare la prima volta.
Anna spalancò la bocca per lo stupore. Con Franco era sempre stato così: gli piaceva sorprenderla con le sue trovate. Prendendola per mano, lui l'accompagnò alla macchina e le aprì la portiera.
«Dove andiamo?» domandò Anna incuriosita, ma lui si limitò a baciarle la punta del naso facendole l'occhiolino.
Era una bellissima giornata di inizio primavera e il sole sembrava colorare il mondo in modo nuovo. Era piacevole osservare il paesaggio che, fino a pochi giorni prima, era rimasto ammantato dalla nebbia.
Il viaggio non fu particolarmente lungo e ben presto Anna si rese conto di dove fossero diretti. Non appena Franco parcheggiò l'auto, si slacciò di colpo la cintura e aprì la portiera, assaporando l'aria salmastra. Quella spiaggia aveva un posto speciale nel suo cuore: era lì che lui le aveva chiesto di sposarlo.
Camminarono per un po' a piedi nudi sulla sabbia, assaporando il dolce tepore del sole sul viso. La spiaggia era deserta e sembrava quasi che il tempo si fosse fermato, creando un piccolo angolo di paradiso solo per loro due.
Nel pomeriggio si fermarono in un piccolo chiosco vicino al mare e ordinarono due aperitivi.
«A cosa devo tutto questo?» gli chiese Anna, voltandosi verso di lui.
Franco ci mise un po' a rispondere, ammirando le onde che accarezzavano la battigia. Dopo qualche minuto di silenzio, si voltò verso di lei e le prese la testa fra le mani, finché i loro visi quasi si sfiorarono. Il suo sguardo era leggermente venato di tristezza.
«Vorrei che mi perdonassi e che, allo stesso tempo, perdonassi te stessa. Non voglio che le ultime parole che tu abbia sentito uscire dalla mia bocca siano intrise di rabbia. Voglio che mi ricordi così come siamo ora, felici e innamorati; perché tu, amore mio, sei la cosa più bella che mi sia mai capitata e ti ho amata fin dal primo momento che ti ho vista. L'ultima cosa a cui ho pensato prima di morire sei stata tu e il tuo magnifico sorriso. Non privare il mondo del tuo sorriso e non dimenticare mai quanto ti amo».
Il mondo sembrò dissolversi e il viso di Franco iniziò a divenire sempre più sfocato. Anna lo chiamò spaventata, ma non ottenne risposta. Si svegliò di colpo nella sua camera, completamente immersa nell'oscurità, la mano tesa nella speranza di afferrare quella di lui. Mentre cercava di calmare l'angoscia provocatale da quel sogno, i ricordi della sera prima iniziarono lentamente a riaffiorare. Il litigio con Franco, lui che se ne andava sbattendo la porta mentre lei gli scaraventava contro un vaso che aveva sempre odiato, ma che non aveva mai buttato via perché a lui piaceva. Era andata a letto presto, sperando che il sonno portasse via la rabbia che lui e le sue parole le avevano scatenato dentro. L'aveva accusata di essere innamorata solamente del suo lavoro, di non avere mai tempo per lui e lei, a quel punto, non ci aveva visto più; gli aveva indicato la porta e Franco, furioso come mai l'aveva visto prima, era uscito di corsa, dopo averle urlato contro di non essere più la persona che aveva conosciuto.
Ma al momento tutto questo non aveva importanza. Anna cercò a tentoni la sveglia; erano appena le due del mattino. Si diresse in cucina e afferrò il telefono, strappandolo bruscamente dal caricabatteria. Turbata dal sogno che aveva appena fatto ci mise un secondo a trovare il numero di casa di Franco, ma nessuno rispose. Probabilmente non è ancora rientrato a casa, si disse; lo faceva spesso quando litigavano. Eppure uno strano presentimento le si stringeva pian piano intorno al cuore, minacciando di gettarla nel panico. Decise allora di chiamarlo al cellulare, anche se forse lui era in collera con lei, ma valeva la pena correre quel rischio solo per essere certa che stesse bene.
Aspettò con ansia che rispondesse al telefono, tormentandosi l'unghia del pollice.
«Pronto, chi parla?» La voce non apparteneva affatto a Franco.
«Chi è lei e perché ha telefono del mio fidanzato?» replicò lei, con voce incerta.
«Mi dispiace signora, sono l'agente Piani. Il suo fidanzato è stato coinvolto in un brutto incidente e purtroppo... » Anna non riuscì a sentire il resto della frase. Il cellulare le scivolò di mano cadendo a terra. Le lacrime iniziarono a sgorgarle dagli occhi mentre fissava lo schermo infranto, incapace di muoversi.
Non seppe mai per quanto tempo rimase lì a contemplarlo. Solo quando sentì suonare il campanello della porta riuscì a riscuotersi quel tanto che bastava per aprire. Due agenti in divisa la fissarono a disagio.
Da quello che Anna riuscì a capire, dato il suo stato di shock, i due agenti erano stati tra i primi ad accorrere quando l'auto di Franco era stata investita da un tir, finendo contro uno dei grossi platani che costeggiavano la strada. Senza esitare avevano sfondato il finestrino del conducente per cercare di salvarlo ma lui era spirato poco dopo tra le loro braccia, pronunciando il suo nome e supplicandoli di dirle quanto in realtà l'amasse. Non appena avevano affidato il suo corpo all'ambulanza, si erano precipitati subito da lei per riferirle le sue ultime parole.
Il più robusto dei due le si avvicinò, mettendole una mano sulla spalla e le chiese se ci fosse qualcuno che potesse chiamare per darle un po' di conforto in quel difficile momento. Anna, tra le lacrime, farfugliò qualcosa, ma l'uomo non riuscì a capire.
«Mia sorella» ripeté lei, soffocando un singhiozzo.
«Ci penso io» disse l'altro agente, raccogliendo il cellulare di Anna. Sfogliò rapidamente la rubrica e telefonò alla donna, scusandosi per l'ora e chiedendole di raggiungere la sorella il prima possibile. «Arriverà tra dieci minuti. C'è qualcos'altro che possiamo fare per lei?».
Anna scosse la testa, incapace di pronunciare una sola parola. Gli agenti rimasero con lei fino all'arrivo della sorella, che li ringraziò di cuore per essersi presi cura di lei. Anna era seduta sul divano e, quando la sorella le si sedette accanto e l'abbracciò, iniziò a piangere sempre più forte, sfogando tutto il suo dolore. Era ormai mattino inoltrato quando si addormentò esausta.
Quando si svegliò, Anna sentì il bisogno di rivedere Franco per l'ultima volta e, dopo aver implorato la sorella di accompagnarla, salì in macchina diretta verso l'obitorio.
Il volto di Franco sembrava sereno, come se lui stesse ancora dormendo. Anna gli accarezzò i capelli e gli baciò la fronte. Alcune lacrime che non riuscì a trattenere caddero sul viso di lui e chiunque l'avesse guardato in quel momento avrebbe quasi potuto credere che anche lui stesse piangendo. Il medico legale e la sorella si allontanarono un momento per dare ad Anna il tempo di dirgli addio, ma lei non ci fece nemmeno caso; in quel momento le parve che il mondo si fosse nuovamente fermato, proprio come nel sogno di quella notte.
«Ti amo e continuerò ad amarti sempre» sussurrò, guardandolo come se lui potesse in qualche modo ricambiare il suo sguardo. Era sciocco, lo sapeva, ma in cuor suo credeva, o forse sperava, che quelle parole potessero in qualche modo raggiungerlo ovunque lui si trovasse.
Si allontanò asciugandosi le lacrime e, presa sua sorella sottobraccio, uscì all'aperto, lasciando che il sole e una brezza leggera le accarezzassero il viso. No, questo non è un addio, si disse. Finché continuerò ad amarlo so che lui mi aspetterà da qualche parte, forse nei miei sogni o altrove, non lo so e non mi importa; tutto ciò che so è che, se c'è una vita dopo la morte, lui sarà lì e lì io sarò con lui.

giovedì 19 maggio 2016

Amici?

Amici? 
Lucia era sempre stata una bambina molto timida, che difficilmente faceva amicizia con gli altri bambini, per cui non era stata particolarmente felice all'idea di trasferirsi in un'altra città. Il primo giorno nella nuova scuola Lucia chiese alla mamma di non accompagnarla fino al portone perché ormai era in quarta elementare e non voleva che gli altri bambini la prendessero in giro perché si faceva ancora portare a scuola dalla mamma. Già presentarsi davanti alla sua classe a metà anno scolastico sarebbe stato traumatico per lei, dato che la prima impressione era fondamentale per farsi apprezzare dai propri compagni, ma fornire loro un pretesto per prendersi gioco di lei non l'avrebbe di certo aiutata a farsi dei nuovi amici.
Con lo stomaco in subbuglio e le gambe tremanti, Lucia arrivò davanti alla porta della sua classe, fece un profondo respiro e bussò, prima di entrare in quella che, nella sua mente di bambina, credeva essere la fossa dei leoni. Dopo aver raccontato alla classe chi era e da dove veniva, venne fatta sedere su l'unico banco libero, vicino ad Amanda, una bambina all'apparenza molto gentile e che sembrava felice di avere una nuova compagna di banco.
Durante la ricreazione Lucia seguì Amanda nel cortile dove tutti i bambini, stretti nei loro cappottini, si stavano divertendo a costruire dei pupazzi di neve. Mentre Amanda e Lucia giocavano a lanciarsi delle palle di neve, quest'ultima vide un bambino in disparte che cercava di rimettere insieme quelli che dovevano essere i resti del suo pupazzo. Quello che colpì Lucia fu l'espressione triste e rassegnata che il suo volto esprimeva. Probabilmente qualche bambino dispettoso si era divertito a distruggere il suo piccolo capolavoro personale.
«Chi è quel bambino?» domandò incuriosita ad Amanda, incapace di togliergli gli occhi di dosso.
«Ah, quello. Nessuno di importante». Amanda cercò di convincere Lucia ad andare da un'altra parte, ma lei sembrava come ipnotizzata da quel bambino che, un mucchietto alla volta, stava cercando di ricostruire il suo povero pupazzo di neve.
«Andiamo a dargli una mano» propose alla sua compagna, ma questa scosse la testa decisa.
«Lascialo perdere, me l'ha detto anche la mia mamma. E poi se vai da lui gli altri bambini se la prenderanno anche con te» le rivelò lei a disagio, guardandosi i piedi. «Sono stati loro a distruggere il suo pupazzo di neve».
«Perché? Cos'ha fatto di male?» La bambina era piuttosto scioccata.
«Non lo so. La mamma mi ha solo detto di stare lontano da lui. Non mi ha detto il perché».
Lucia la guardò per un momento e poi le voltò le spalle, dirigendosi verso il bambino e fermandosi proprio davanti a lui.
«Ciao, io sono Lucia e tu?» Per la prima volta Lucia mise da parte la sua timidezza.
Il bambino alzò lo sguardo e la guardò confuso.
«Stai dicendo a me?» chiese diffidente. Solitamente nessuno si avvicinava a lui, tranne per giocargli qualche scherzo di cattivo gusto.
«Sì, certo. Come ti chiami?» insisté nuovamente lei, rivolgendogli un ampio sorriso, che però non venne ricambiato.
«Riccardo» l'accontentò squadrandola. Non gli sembrava il tipo di bambina che si divertiva a fare i dispetti agli altri, ma in quella scuola non si poteva mai dire. Fino ad ora tutti avevano sempre evitato di parlare con lui, perciò trovava strano che quella bambina lo degnasse di così tanta attenzione.
«Senti, Riccardo, perché ce l'hanno tutti con te?» Troppo curiosa di conoscere la verità, Lucia lasciò da parte l'imbarazzo che provava ogni qual volta parlava con qualcuno che non conosceva.
«Perché ho due papà» rispose lui con sincerità, abbassando però la voce.
«Due papà?» Lucia lo guardò sorpresa. Come si poteva avere due papà? Non le sembrava possibile.
«Sì. La mia mamma è morta pochi mesi dopo che sono nato e il mio papà era molto giù. Tre anni fa ha incontrato Giorgio e ha smesso di essere triste, però la gente non lo capisce. Per questo i bambini a scuola mi prendono sempre in giro e nessuno vuole mai giocare con me».
L'interesse di Lucia e il suo dolce visino spinsero il bambino ad aprirsi con lei. Nessuno si era mai preso la briga di parlargli senza prendersi gioco di lui.
«L'hai mai detto al tuo papà?»
«No, non voglio che torni ad essere triste di nuovo. È così felice adesso».
«Ma tu non mi sembri felice, però» constatò la bambina.
A quelle parole Riccardo chinò il capo avvilito e si rimise a lavorare al suo pupazzo.
«Non importa» mormorò con voce appena udibile.
«Sì, invece. Perché non lo dici alle maestre?» propose allora Lucia. Le erano sembrate delle persone molto gentili e premurose e di sicuro avrebbero aiutato volentieri il povero Riccardo.
«Anche loro ce l'hanno con me. L'altro giorno le ho sentite parlare mentre stavo tornando dal bagno. Dicevano che è una cosa inaccettabile e immorale che i miei papà vengano a prendermi a scuola e si mostrino in pubblico».
Una piccola lacrima scese dal volto di Riccardo, ma lui l'asciugò subito, sporcandosi il viso di neve.
«Non so nemmeno cosa vuol dire “immorale”. So solo che le persone ci indicano sempre per strada. Credono di sapere tutto ma in realtà non sanno un bel niente. Pensano che sia un male per me avere due papà che si vogliono bene, ma l'unica cosa che mi fa stare male sono proprio loro, le persone che ci parlano dietro e che ci guardano come se stessimo facendo qualcosa di sbagliato».
«Gli adulti a volte sanno essere proprio stupidi» commentò Lucia, dopo aver visto la sua espressione amareggiata. «Sai cosa ti dico? Che mi siedo qui con te» e iniziò ad aiutarlo a rimettere in piedi il pupazzo di neve.
«No, non farlo. Se la prenderanno anche con te» esclamò Riccardo agitandosi. Quella bambina gli stava simpatica e non voleva che gli altri trattassero male anche lei.
«Non mi importa niente degli altri e poi così saremmo in due a farci compagnia. Chi ha bisogno di loro?» Il suo tono era deciso mentre continuava ad aggiungere neve al pupazzo.
Il bambino la guardò stupefatto.
«Amici?» chiese lei togliendosi il guanto e porgendogli la mano.
«Amici!» rispose lui stringendogliela felice.
Alcuni bambini, che si erano voltati quando Lucia era andata a parlare con quel bambino che mal sopportavano, li guardarono schifati, mentre altri sorrisero, pensando che avevano una nuova vittima di cui occuparsi, ma questo a Lucia non importava. Anche se nei mesi seguenti venne presa di mira da alcuni bambini, lei continuava a ignorarli. Riccardo, dal canto suo, era così felice di avere un'amica che si preoccupasse di lui da non avere più bisogno di altro. Insieme i due bambini erano in grado di sopportare ogni presa in giro e lui non si sentì più solo. Poco a poco gli altri bambini, vedendo che non c'era più soddisfazione nel prendersela con loro, smisero di torturarli e li lasciarono finalmente in pace, ma Riccardo e Lucia, che da quando erano diventati amici non avevano più occhi per nessun altro, non se accorsero nemmeno.

venerdì 29 aprile 2016

Due linee sottili

Due linee sottili 


Ilaria misurò il soggiorno a grandi passi, girando per l’ennesima volta attorno al tavolo. Quei tre minuti le sembrarono i più lunghi della sua vita.
Tutto era iniziato l’estate prima, in una calda serata d’Agosto. Aveva incontrato Leonardo mentre lavorava come cameriera in un piccolo bar in centro. Era stato subito amore a prima vista e i due avevano trascorso dei mesi indimenticabili, ma ora tutto era bruscamente finito; la sua ex era tornata da poco single e lui si era gettato subito ai suoi piedi. E se non fosse stato per quel piccolo inconveniente, come lo definiva lei, sarebbe stata ben più che lieta di dimenticarsi completamente di quell’imbecille.
Il cellulare squillò, segno che i tre minuti erano passati. Si avvicinò al tavolo, spense il timer e girò il test di gravidanza; le mani le tremavano. Due linee sottili confermarono i suoi sospetti, minacciando di gettarla completamente nel panico. Prima che potesse formulare un qualsiasi pensiero, sentì il padre aprire la porta di casa. Ilaria afferrò in fretta il libro di algebra che era lì vicino e riuscì a nascondervi il test appena prima che il padre alzasse gli occhi e si voltasse a guardarla.
«Ciao tesoro, mi sembri un po’ pallida. Va tutto bene?»
«No, cioè sì… sono solo preoccupata per algebra. Tra pochi giorni c’è il compito» si giustificò lei, stringendo a sé il libro e pregando che suo padre non facesse ulteriori domande.
Fortunatamente per lei, il padre era tornato solo per prendere alcuni documenti che aveva dimenticato prima di uscire e doveva correre subito da un cliente per mostrargli un appartamento.
Ilaria gli sorrise prima che lui tornasse al lavoro, ma appena sentì la porta chiudersi, si appoggiò alla parete e si lasciò scivolare sul pavimento. Ricontrollò nuovamente il test, per essere certa di non aver visto male, ma non era così. Provò a consolarsi, sostenendo che quel tipo di test non era pienamente affidabile, ma si diede della stupida da sola. Ancora prima di farlo sapeva già quale sarebbe stato l’esito; riusciva a sentirlo in ogni fibra del suo essere. Quel test era solo una banale conferma.
Aveva solo diciassette anni, per l’amor del cielo! Come avrebbe fatto? Confidarsi con i suoi genitori era impensabile. Sua madre era una donna troppo egoista per preoccuparsi minimamente di lei e il padre, beh… come minimo l’avrebbe uccisa.
Ilaria si asciugò le lacrime con rabbia. Era stata una stupida e ora ne avrebbe pagato le conseguenze. Scagliò il libro dall’altra parte della stanza. Al diavolo il compito di algebra; era l’ultima delle sue preoccupazioni.
 

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giovedì 7 aprile 2016

Riportami a casa

Riportami a casa

Nonostante la legge parlasse chiaro, non ho mai potuto fare a meno di fantasticare sul mondo che c’era là fuori, oltre quegli alberi e quella foresta che tanto amo. Era più forte di me. Mi sono spinta più e più volte fin quasi al limitare del nostro territorio, senza avere mai il coraggio di fare quello che il mio cuore mi suggeriva da tempo: varcare quel confine.
Una ninfa vive per servire la natura e trae la sua felicità dalla terra stessa. Questo era quello che ci era stato insegnato, il motivo per cui eravamo state create, e questa spiegazione sembrava essere sufficiente per tutti, ma per me.
Ogni mattina mi allontanavo dal cuore della foresta, verso le aree più remote, dove le altre ninfe non osavano spingersi. I miei piedi accarezzavano l’erba bagnata dalla rugiada del mattino, mentre a passo lento mi aggiravo fra gli alberi, sfiorando le loro cortecce e lasciando che fosse il vento a guidarmi nella giusta direzione. In ogni fibra del mio essere avvertivo la foresta che si risvegliava dopo il lungo letargo a cui l’inverno ciclicamente la costringeva; potevo percepire ogni pianta e ogni creatura vivente nel raggio di qualche centinaia di metri. Ero un tutt’uno con l’intera foresta, eppure mi sentivo incompleta.
Cosa c’era mai di sbagliato in me? Avrei voluto essere felice e spensierata come le mie compagne, danzare sotto la luna e la pioggia, ridere e celebrare la rinascita della terra, ma la mia anima era come guastata dal desiderio di conoscere ciò che c’era al di là del piccolo mondo che avevo imparato a conoscere.
Trascorsero molti anni prima che riuscissi a raccogliere abbastanza coraggio da fare quel passo, ma alla fine, in una notte di luna nuova, nascosta sotto il mio mantello, mi allontanai dalla foresta senza voltarmi indietro. ​
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martedì 1 marzo 2016

Parola d'ordine: Sperimentare!


Oggi vorrei parlarvi dell'ultimo romanzo scritto - o per meglio dire riscritto - da Stephanie Meyer, autrice della famosissima saga di Twilight. Ci tengo ad informarvi che non voglio aprire un dibattito o esprimere la mia opinione su questa saga, ma si tratta più che altro di una riflessione sulla scrittura in generale che prende come esempio l'ultimo romanzo pubblicato da questa scrittrice.
Life and Death rappresenta una sorta di rivisitazione del romanzo Twilight: la Meyer, infatti, in occasione del decimo anniversario dalla pubblicazione di Twilight, ha infatti deciso di regalare ai suoi lettori una versione un po' diversa del romanzo che l'ha resa celebre in tutto il mondo, rovesciando i ruoli dei due protagonisti. La protagonista, Bella, è stata infatti sostituita da un personaggio di genere maschile, Beaufort, mentre il posto del vampiro Edward è stato affidato all'affascinante Edythe. Il cambiamento di sesso, però, non riguarda solamente i due personaggi principali, ma si estende a quasi tutti gli abitanti della piccola cittadina di Forks. 
Non è mia intenzione dilungarmi sulle differenze tra i due romanzi, ma ciò che mi preme sottolineare è che la trovata della Meyer funziona! Grazie a questo romanzo è infatti riuscita a suscitare l'interesse di tutti gli amanti della saga, rivitalizzando una storia che ormai anche i muri sapevano a memoria.

Prima di iniziare a scrivere una storia è sempre bene pensare alla giusta prospettiva da cui raccontarla, ponderando le varie alternative che la nostra storia avrebbe da offrire. Una volta che avete delineato le linee guida del vostro racconto, o romanzo che sia, una domanda sorge spontanea: a quale personaggio è più saggio affidare la narrazione?
Quando il protagonista è uno solo la scelta è anche troppo ovvia, ma se i protagonisti sono più d'uno? Beh, la scelta diventa più ardua. C'è chi preferisce raccontare la storia da un unico punto di vista, magari raccontando la storia in prima persona, chi opta per raccontare la storia in terza persona, utilizzando un narratore onnisciente, oppure chi predilige una storia, sempre in terza persona, ma raccontata da più punti di vista: in questo modo la prospettiva del racconto cambia ad ogni capitolo, a seconda del personaggio su cui si focalizza l'attenzione.
Alcuni anni fa, proprio la Meyer, aveva iniziato a scrivere una versione di Twilight, vista però attraverso gli occhi del protagonista maschile. Il romanzo, Midnight Sun, è stato però interrotto poiché i primi capitoli erano stati fatti circolare in rete prima ancora che la Meyer terminasse di scriverlo.
Trovo alquanto interessante l'idea di riscrivere la medesima storia da un diverso punto di vista. Troppo spesso siamo spinti a scegliere come protagonisti personaggi che appartengono al nostro stesso sesso; ci viene più istintivo, naturale, anche perché spesso non abbiamo idea di come reagirebbe una persona del sesso opposto a determinate situazioni, non trovate? Fornendo tuttavia una versione differente, rendiamo non solo l'opera più completa, ma potremmo anche renderci conto che, in realtà, la storia funziona meglio sotto quella particolare luce, aiutandoci a visualizzare meglio alcuni dettagli che magari prima ci sfuggivano.
La parola d'ordine quando si scrive è senza dubbio SPERIMENTARE. Non abbiate paura di stravolgere la vostra storia, di cambiarne la prospettiva o perché no, di riscriverla da capo. Non siate timidi e guardate la trama da ogni prospettiva.
E una volta che avete terminato non abbiate fretta di pubblicarla. Controllatela e ricontrollatela. Chiudetela in un cassetto per un po' di tempo, una settimana o due, e poi riprendetela in mano. Vi aiuterà a distaccarvi un po' da ciò che avete scritto e riuscirete a leggerla con un po' più di oggettività, ma soprattutto, sarete in grado di vederla con occhi nuovi.
La verità è che per scrivere bene bisogna leggere e scrivere. Non esistono altri modi; non ci sono scorciatoie. Per poter forgiare il proprio stile è necessario continuare a scrivere, perché con il tempo possiamo solo migliorare.
Life and Death è uscito dieci anni dopo Twilight e, anche se la storia è la stessa, - finale a parte -, è possibile intravedere fra le righe la differenza tra questi due romanzi e la crescita che ha compiuto l'autrice in questi anni.

Dunque, che siate amanti o meno di questa saga, non potete fare a meno di riconoscere che, comunque, l'idea di Stephenie Meyer è un ottimo spunto per farci riflettere sul nostro modo di scrivere e che l'unico modo per scrivere meglio è quello di continuare a scrivere.

lunedì 18 gennaio 2016

Una piccola luce nel buio

Una piccola luce nel buio è un racconto scritto per cercare di esorcizzare un po' questa crisi che, bene o male, sta soffocando tutti, anche se in modo diverso.
Ogni giorno camminiamo per strada, incuranti del mondo che ci circonda, senza preoccuparci di niente e di nessuno; senza pensare che un nostro gesto, come un semplice sorriso, possa rendere migliore la giornata di qualcun altro. Lo so, forse tendo a ripetermi, ma è proprio così.
Nonostante quello che dicano i giornali o la televisione, la crisi c'è e si vede: nei volti stanchi e amareggiati dei lavoratori, che cercano di fare il possibile per guadagnare qualche soldo in più o che dopo anni di sacrifici si ritrovano disoccupati; negli sguardi dei genitori, che si preoccupano di arrivare a fine mese, senza far mancare nulla ai propri figli; negli occhi dei giovani, che guardano ad un futuro incerto, cercando di non pesare sulle spalle dei propri cari.

Vi lascio questa storia, questa piccola luce nel buio, affinché non dimentichiate che c'è sempre una speranza; forse non riuscite a vederla, ma da qualche parte c'è. 
Solo per questa volta, però, vi chiedo di leggere questo racconto direttamente sul mio sito. E' una storia a cui tengo molto e che ha ricevuto anche un Conferimento Speciale quale Protagonista attivo della Cultura alla 6° edizione Concorso Poesia e Narrativa " Idea Donna – Lui e Lei-". Solitamente pubblico i miei racconti sia sul sito che sui miei blog, ma questa volta ho fatto una scelta diversa. Troverete il link alla fine del post.

Vi auguro una piacevole lettura e ricordate: il vostro sorriso può cambiare la giornata di qualcuno!


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giovedì 24 dicembre 2015

Tango a Parigi

Ludovica guardava sconsolata la valigia che, abbandonata sul letto, proprio non voleva saperne di chiudersi.
«Maledizione!»
«Se non avessi comprato tutti quei souvenir, la valigia non farebbe così tanta fatica a chiudersi» la rimproverò il fratello, completamente stravaccato sul letto, senza alzare lo sguardo dal suo cellulare.
«Chiudi il becco, Giò!» gli ordinò.
«Nervosetta, eh?!» la prese in giro lui.
Nervosa era un eufemismo. Ludovica era a dir poco furiosa. Si trovavano a Parigi, in una delle più belle città d’Europa, ma erano sempre stati costretti a seguire i loro genitori in questo o quel museo, senza avere la benché minima possibilità di godersi qualche attimo in santa pace per vedere ciò che desideravano. Lei e Giovanni non erano più bambini e avrebbero meritato molta più libertà, fiducia e considerazione da parte loro.
Ludovica gli lanciò un’occhiataccia.
«Non fare così, Ludo. So come risollevarti il morale» e, alzatosi dal letto le si avvicinò, sventolandole davanti al viso il display del cellulare.
«Smettila, stupido!» disse infastidita, spostandogli il braccio.
«Guarda meglio» bisbigliò Giovanni divertito, mostrandole di nuovo il display. Sullo schermo c’era la mappa della metropolitana di Parigi.
«Quindi?» sbottò lei senza capire.
«Quindi questa sera ce ne andremo a fare un bel giretto per Parigi, senza che mamma e papà lo scoprano».
«Ma sei impazzito?!»
«Per niente! A quest’ora saranno già andati a dormire, visto che ci dobbiamo alzare presto domani e papà deve guidare tutto il giorno. Possiamo uscire e tornare senza che lo sappiano. Abbiamo più di vent’anni, cavolo! Ci meritiamo un po’ di libertà».
«Confermo! Sei completamente uscito di senno» disse Ludovica di fronte all’espressione maliziosa del fratello.
«Puoi restare qui, se vuoi» mormorò lui afferrando la giacca e preparandosi ad uscire, «io andrò comunque».
Ludovica lo guardò titubante. Da una parte voleva uscire e vedere Parigi senza avere i genitori perennemente addosso. Voleva, almeno per una sera, sentirsi libera e fare quello che desiderava. Dall’altra parte si sentiva in colpa perché non avrebbe voluto disobbedire ai suoi e temeva le eventuali ripercussioni nel caso in cui fossero stati scoperti.
Giovanni aprì la porta e uscì dalla stanza. Stava per richiudersela alle spalle quando Ludovica esclamò: «Aspettami!»
«Ah, ti sei decisa finalmente!»
«Qualcuno dovrà pur tenerti d’occhio» rispose a mo’ di scusa, mentre, ancora incerta, si dava un’ultima occhiata allo specchio prima di uscire.
Soffocando una risata, Giovanni si voltò e si avviò lungo le scale.

***

Le metropolitane, in qualunque parte del mondo ci si trovi, non sono certo il posto più sicuro o pulito. Ludovica lo sapeva bene, dato che la madre non perdeva mai l’occasione per ripeterglielo. Non che ce ne fosse bisogno. Bastava guardarsi un po’ intorno per sentirsi ben poco al sicuro. Se ne stava seduta sul bordo del seggiolino, tenendosi stretta la borsetta fra le braccia, chiedendosi ancora se aveva fatto bene a dar retta a suo fratello.
«Rilassati, Ludo. Ormai è fatta, quindi cerca di non pensarci troppo su e goditi questo momento» disse lui sporgendosi in avanti verso di lei.
«Hai ragione» bisbigliò.
Giovanni la guardò a bocca aperta: «Mi stai dando ragione? Oh, mamma! Mi sa che hai la febbre sorellina», scherzò lui, «Forse dovrei riportarti indietro prima…»
Ludovica cercò di sferrargli un calcio sullo stinco ma quasi perse l’equilibrio nel tentativo, facendo sbellicare il fratello dalle risate. Giovanni iniziò a ridere così forte che alcuni dei passeggeri si voltarono a fissarli.
Fortunatamente l’albergo non era molto distante dal luogo in cui Giovanni voleva andare così, dopo appena due fermate, fece cenno alla sorella e scesero a Champ de Mars 1. Gli occhi di Ludovica si illuminarono non appena lesse il cartello: «Mi stai portando a vedere la Tour Eiffel, non è vero?»
«Ci sei arrivata. Era ora!» la stuzzicò lui.
«Dovresti sapere ormai che non ho il benché minimo senso dell’orientamento. Per me la piantina della metropolitana rimarrà un mistero» rispose lei con un sorriso. Giovanni notò con piacere che finalmente iniziava a rilassarsi.
Una volta usciti dalla metro, Ludovica rimase incantata dall’atmosfera in cui si trovava. Si trovavano sulla rive gauche 2 della Senna, la notte era ormai scesa ma l’oscurità non riusciva ad avvolgere completamente la città. Trascinò Giovanni fino al parapetto da cui si poteva godere di una vista straordinaria. Gli edifici illuminati si riflettevano sulla Senna creando giochi di luce incantevoli. Non c’erano dubbi: Parigi era davvero la città dell’amore. L’atmosfera che si respirava sarebbe stata in grado di sciogliere anche il cuore più duro.
Voltandosi verso il fratello, Ludovica vide la Tour Eiffel in lontananza e rimase senza fiato. La Dame de Fer 3 era interamente rivestita di luci dorate e si stagliava contro l’oscurità del cielo. Era la cosa più bella che avesse mai visto. Non ci sono parole per descrivere l’emozione che provò in quel momento. Era estasiata.
Essere usciti di nascosto ora non le sembrava più una brutta idea.
«Forza, Ludo. Andiamo!» esclamò Giovanni dopo aver guardato l’orologio.
«Dove?» chiese lei distogliendo a fatica gli occhi da quella meraviglia .
«A vederla da vicino» rispose ridendo e si mise a correre, inseguito dalla sorella.
Quando arrivarono davanti la Tour Eiffel mancavano un paio di minuti alle undici. Ludovica ansimava per la corsa, ma questo non le impedì di maledire il fratello.
«Idiota! Era necessario correre via in quel modo???»
«Certo che sì» rispose sfoderando uno dei suoi finti sorrisetti angelici. Ludovica non riuscì a trattenersi e scoppiò a ridere. Era impossibile rimanere seri di fronte alle espressioni da cretino che suo fratello adorava sfoggiare quando ne aveva voglia.
«Guarda» disse lui allo scoccare delle undici, indicandole la Tour Eiffel.
Ludovica si voltò e rimase a fissarla a bocca aperta. Se prima aveva pensato che fosse bellissima, ora le sembrava magnifica. Sulla sua superficie erano stati incastonati, come dei diamanti, dei faretti bianchi che brillavano allo scoccare di ogni ora, rendendo l’atmosfera ancora più magica e spettacolare. Rimasero lì per cinque minuti, il naso rivolto verso quella meraviglia, finché l’incantesimo non ebbe fine.
«Bella, vero?»
Ludovica, troppo imbambolata per rispondere, si limitò ad annuire. Sarebbe rimasta volentieri lì ad ammirarla fino all’alba, ma Giovanni aveva altri piani per quella notte. A malincuore si lasciò trascinare via, lasciandosi la Tour Eiffel alle spalle. Non poteva fare a meno di voltarsi in continuazione, suscitando l’irritazione del fratello che, seccato, si voltò e se la caricò sulla spalla.
«Mettimi giù, stupido!» protestò lei.
«Non ne ho nessuna intenzione» rispose serafico, continuando a camminare lungo la riva della Senna.
«Mettimi giù, ho detto!» ripeté lei alzando la voce e attirando gli sguardi di alcuni passanti.
«Mettimi giù o dirò alla mamma che mi hai costretta ad uscire stasera», lo minacciò.
Giovanni si fermò e lasciò la presa. Ludovica si ritrovò a terra come un sacco di patate.
«Come comanda lei, padrona» disse lui sorridendo, facendole una sorta di inchino.
La faccia di Ludovica si tinse di un rosso acceso, ma fortunatamente la scarsità di lampioni celò il suo imbarazzo ai pochi spettatori che si erano fermati ad osservarli. Ignorando la mano tesa del fratello si rimise in piedi e gli voltò le spalle, continuando a camminare nella direzione in cui erano diretti. Giovanni le corse dietro e le mise un braccio intorno al collo:
«Mi dispiace, Ludo» si scusò.
«Idiota!»
«Dai su, non fare così. È la nostra unica sera di libertà».
«Era necessario gettarmi a terra?» sibilò.
«Lì te la sei un po’ cercata» rispose lui sovrappensiero, «Animo, ragazza mia! C’è un’altra cosa che vorrei mostrarti».
«E cosa?» chiese incuriosita, dimenticandosi di avercela con lui.
«Mmmh… è una sorpresa!»
I due ragazzi camminarono per un po’ lungo la riva. Appoggiata al braccio del fratello, gli occhi di Ludovica saettavano a destra e a sinistra cercando di non perdere nessun particolare di ciò che vedevano. Continuando a camminare, i suoi pensieri vennero interrotti da una melodia particolare. Seguendo la musica notarono un gruppo di persone che danzavano poco più avanti, mentre altri li osservavano.
«La sera alcuni ballerini di tango si radunano qui per ballare», le spiegò Giovanni, «soprattutto d’estate quando le scuole di ballo sono chiuse. Vieni, sediamoci su quella panchina».
Affascinata dalla sensualità che i ballerini trasmettevano, Ludovica si accorse a malapena che suo fratello l’aveva lasciata da sola come al solito per accalappiare una biondina che, come loro, si era fermata a guardare. Lanciando un’occhiata alla ragazza – la classica ragazza tutta curve, trucco ed extension, attratta solo da super palestrati – Ludovica pensò che anche quella volta suo fratello non aveva alcuna speranza. Doveva riconoscerglielo, però, Giovanni non si lasciava scoraggiare e ci provava sempre e comunque. Intenta ad osservare il fratello che sfoderava una delle sue tante frasi per rimorchiare, non si era accorta che uno dei ballerini si era allontanato dagli altri e le si era avvicinato. Sentendosi osservata, Ludovica si girò e incontrò il suo sguardo, due splendidi smeraldi, incorniciati da morbidi riccioli neri che gli accarezzavano la fronte. Il ragazzo le sorrise e le porse la mano:
«Voulez-vous danser, Mademoiselle?» 4
«Je… ne…» balbettò confusa. Avrebbe voluto spiegargli che non sapeva ballare ma purtroppo di francese conosceva solo quattro o cinque parole. Era già un miracolo che fosse riuscita a capire cosa le aveva detto.
Vedendola così impacciata, il ragazzo la prese per mano e la trascinò gentilmente in mezzo agli altri ballerini che non avevano mai smesso di ballare. Una volta raggiunto il centro di quella pista improvvisata, prese la mano sinistra di Ludovica e se la posò sulla spalla mentre la sua mano destra scivolò dolcemente dietro la schiena di lei, attirandola a sé.
Se non fosse stata inebriata dal suo sguardo probabilmente Ludovica, timida com’era, non avrebbe mai accettato di mettersi così al centro dell’attenzione. Una piccola parte di lei era consapevole che una volta rimasta sola col fratello, lui non avrebbe esitato a prenderla in giro per la figuraccia che avrebbe sicuramente fatto, visto che non sapeva ballare. Persino un lampione era meno rigido di lei. Ogni volta che i suoi amici decidevano di andare in discoteca, Ludovica inventava qualche scusa.
Questa volta però, invece di lasciarsi guidare dalla musica, Ludovica si lasciò guidare da quel bellissimo ragazzo che aveva di fronte e che non smetteva di guardarla. Le sarebbe piaciuto chiedergli il suo nome, ma non sapeva come, così si limitò ad immergersi nei suoi occhi mentre lui la guidava. Man mano che ballavano i loro corpi sembravano attirarsi come due calamite, avvicinandosi sempre di più, finché Ludovica si ritrovò stretta fra le sue braccia. Poteva quasi sentire il cuore del ragazzo battere contro il suo. Lui appoggiò la fronte alla sua e le sorrise. Il suo sorriso era caldo e suadente e Ludovica non poté fare a meno di arrossire. Sembrava quasi di essere in un sogno e lei avrebbe voluto restare così per sempre, ma purtroppo anche i sogni sono destinati a finire.
Ludovica udì la voce del fratello che la chiamava e si voltò. Lo vide poco distante, in mezzo alla gente che li osservava. Le stava facendo cenno che era ora di andare. Lei si girò verso il ragazzo che, deluso, le accarezzò il braccio. Aveva compreso che lei non poteva restare e sembrava visibilmente triste.
Pensando che quella era la loro ultima sera a Parigi e che non l’avrebbe più rivisto, Ludovica fece una cosa che sorprese persino lei stessa. Si avvicinò a lui e, dopo avergli sfiorato il viso, lo baciò. Le labbra del ragazzo si schiusero dolcemente e lui la strinse tra le sue braccia. Quando le loro lingue furono costrette a separarsi, Ludovica guardò in quell’abisso verde che, per la prima volta nella sua vita, aveva scatenato in lei una forza e un coraggio che non sapeva di avere, abbattendo ogni timidezza. Lui le sorrise di nuovo e lei, dopo aver sfiorato le labbra di lui per l’ultima volta, si girò e corse via, senza voltarsi indietro.

1 Significa “Campo di Marte”. È un giardino pubblico di Parigi, delimitato a nord-ovest dalla Tour Eiffel.
2
In francese significa “riva sinistra”.

3 “Dama di Ferro”, altro nome con cui è conosciuta la Tour Eiffel.
4
“«Volete ballare, signorina?»”


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Questa storia nasce proprio a Parigi, durante una stupenda e romantica visita guidata sulla Senna. Era una sera d'agosto e il battello scivolava placidamente sul fiume. Ogni angolo di Parigi era illuminato e sulle rive ballerini di ogni tipo danzavano e si divertivano. Era davvero uno spettacolo straordinario. Quella serata mi è rimasta nel cuore e ho cercato di ricreare parte di quella magica atmosfera con questo racconto.

Vi faccio tantissimi auguri e spero che tutti i vostri sogni si realizzino!